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Articoli

Autore: Raffaele Tovino 31 marzo 2025
Com’è possibile, in un momento in cui occupazione e prodotto interno lordo sono in aumento, che quasi un italiano su quattro sia a rischio povertà? Molti si saranno posti questo interrogativo dopo la recente pubblicazione dei dati sulle condizioni di vita e di reddito nel nostro Paese da parte dell’Istat. E a quelle stesse persone non sarà sfuggita l’evidente discrepanza tra queste statistiche, poco lusinghiere se non addirittura allarmanti, e quelle sul mercato del lavoro, che invece tanto fanno inorgoglire il governo Meloni. Questa divergenza non è il risultato di un atteggiamento schizofrenico dell’Istat, ma di un dramma che da anni affligge l’Italia e, in particolare, il Sud: quello del lavoro povero. E allora ragioniamo sui numeri. Pochi giorni fa l’Istat ha detto che il 23% degli italiani è a rischio povertà, che i genitori hanno il 9% in meno di possibilità di spendere rispetto a 18 anni fa e che un lavoratore ogni dieci è povero anche se ha un’occupazione. In precedenza, sempre l’Istat aveva osservato come nel 2024 il numero degli occupati sia cresciuto di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego sia calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. Si tratta di dati incompatibili tra loro? Niente affatto. Queste statistiche si giustificano e ci inducono a riflettere sulla qualità del lavoro in Italia. Non c’è dubbio, infatti, che nel nostro Paese il lavoro si sia progressivamente impoverito per quanto riguarda sia la remunerazione sia la qualità. Anche qui ci soccorrono i numeri: secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, la crescita dei salari reali avvenuta in Italia nel 2024 non è stata sufficiente a compensare le perdite registrate nel biennio precedente, quando l’inflazione ha registrato livelli mai visti negli ultimi 40 anni. Più precisamente, l’aumento delle retribuzioni nella misura del 2,3% non è riuscito a recuperare quanto è stato perso in potere di acquisto nel 2022 (-3,3%) e nel 2023 (-3,2%). Si tratta del risultato peggiore tra i Paesi del G20, che riflette un trend ormai consolidato. Raffaele Tovino - L'Edicola
Autore: Raffaele Tovino 29 marzo 2025
Nel 2024, a fronte di buoni dati economici, è aumentata la pressione fiscale Sì, non c’è dubbio, nel 2024 l’economia italiana è migliorata e a certificarlo ci pensano i dati recentemente diffusi dall’Istat. Crescita reale, deficit, saldo primario, entrate, pil: tutti valori più o meno positivi. Non si può ignorare, però, l’aumento della pressione fiscale. E a non poterlo ignorare sono soprattutto i lavoratori dipendenti, cioè quelli più martoriati da un fisco che ogni giorno rivela le sue incongruenze e illogicità. Partiamo, come sempre, dai numeri. Dati Istat alla mano, nel 2024 l’economia nazionale è cresciuta in termini reali dello 0,7%. Pochino, non c’è che dire, ma ad alimentare l’entusiasmo ci pensano statistiche ben più pesanti. È il caso del deficit, ridottosi dal 7,2 addirittura al 3,4% e dunque quasi in linea con le regole europee; del saldo primario, positivo seppure soltanto dello 0,4%; delle entrate nominali, cresciute del 5,7%; del pil nominale, in salita di poco meno di tre punti. Su queste discrete o buone od ottime performance ha inciso sicuramente il taglio delle spese sostenute dalla pubblica amministrazione per circa 41 miliardi, legato soprattutto al fortissimo ridimensionamento del Superbonus. L’unico incremento che non fa piacere è quello della pressione fiscale, passata in un anno dal 41,4 al 42,6%. In valore assoluto, ciò significa che lo Stato ha incassato, in soli 12 mesi, 26 miliardi in più rispetto al 2023. Secondo la premier Giorgia Meloni, questo aumento è legato al buon andamento dell’occupazione. E, in effetti, i lavoratori dipendenti risultano cresciuti di 2,3 punti e i loro redditi di 5,2. E, come è facile intuire, più “stipendiati” equivalgono a più imposte e più contributi pagati da vecchi e nuovi lavoratori, anche a parità di aliquote rispetto al passato. Come hanno magistralmente osservato due economisti del calibro di Leonzio Rizzo e Massimo Bordignon, le ragioni dell’aumento della pressione fiscale sono molto meno piacevoli. E questo per due ordini di motivi. Il primo: i redditi da lavoro dipendente sono tassati molto più degli altri. Il 49% delle entrate fiscali, infatti, è legato ai salari, il 17 ai profitti e il 33 alle imposte indirette. Eppure i salari costituiscono solo il 38% del pil, mentre i profitti il 50 e le imposte indirette il 12. Quindi, se i salari crescono, aumenta anche il pil e le entrate subiscono un’impennata che fa poi registrare una maggiore pressione fiscale. In più, c’è da dire che i redditi da lavoro sono tassati due volte perché soggetti a contributi, che sono un’imposta proporzionale, e a Irpef, che è un’imposta progressiva. E proprio la progressività impone che i redditi, a mano a mano che crescono, siano sottoposti a un’aliquota via via più alta. Ciò, tuttavia, riguarda solo i redditi da lavoro dipendente che rappresentano l’85% dell’Irpef. Proprio per alleggerire il carico fiscale sui lavoratori dipendenti, la legge di bilancio per il 2025 ha reso strutturale il taglio del cuneo fiscale che prevede una riduzione dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti, sia nel settore pubblico che privato. In più, sono stati rivisti gli scaglioni e le aliquote dell’Irpef. Si tratta di interventi opportuni, ma probabilmente ancora insufficienti. Anche perché, oltre che con i danni “strutturali”, i lavoratori dipendenti hanno dovuto fare i conti con la beffa dell’inflazione: tra 2022 e 2023 la quota dei profitti sul pil è cresciuta perché le imprese sono riuscite a scaricare in avanti i maggiori costi praticando prezzi più elevati, mentre i lavoratori dipendenti sono rimasti vincolati ai contratti firmati in precedenza e quindi hanno subito una decurtazione del loro potere d’acquisto soprattutto nel Mezzogiorno, dove il livello medio degli stipendi è notoriamente più basso. Ciononostante il fisco ha continuato a tassare i redditi da lavoro dipendente alle usuali aliquote. Ora è tempo di correggere anche quelle storture. Raffael Tovino - Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 27 marzo 2025
A gennaio erano oltre 430 mila le imprese edili col certificato, ma sono stati fatti solo 8 mila controlli L’ultimo bollettino parla di tre morti sul lavoro nel giro di poche ore. Il più giovane, Daniel Tafa, di Pordenone, aveva solo 22 anni e stava lavorando su una macchina per stampaggio di ingranaggi industriali quando una scheggia incandescente lo ha trafitto alla schiena uccidendolo all’istante. Nicola Sicignano, invece, di anni ne aveva 51 ed è rimasto vittima del lavoro un un’azienda di trattamento dei rifiuti a Sant’Antonio Abate, in provincia di Napoli: il braccio e la testa sono rimasti incastrati nel nastro trasportatore. Il 38enne originario di Bari Umberto Rosito, infine, è stato investito da un mezzo pesante mentre lavorava alla carreggiata nord dell’Autosole, vicino a Orvieto. Queste ultime tre vittime sono in linea con le statistiche Inail che parlano di circa 1000 morti l’anno. Ma, a fronte di tutto questo, nemmeno la soluzione della patente a punti per le aziende sembra aver migliorato la situazione. A quasi cinque mesi di distanza dalla sua entrata in vigore, infatti, se sulla carta poteva coprire una platea di 830 mila aziende, se ne sono dotate realmente sono e poco più di 432 mila sono state controllate. La ministra Calderone ha spiegato che l’Ispettorato del Lavoro ha fatto 8 mila controlli senza rilevare grosse criticità. Il che significa che ci sono poche infrazioni ma anche pochi controlli, fermi al 12% circa. Quanto alle pagelle, ai famigerati crediti da togliere (per ora il meccanismo vale solo per le aziende edili), il Ministero non ha dato ancora alcun dato. Il meccanismo della patente a punti prevede che ad ogni impresa vengano assegnati 30 crediti che, attraverso vari step, possono poi salire sino a quota 100. Ma se si scende sotto i 15 punti non si può più operare nei cantieri. Tuttavia, basta seguire un corso di formazione per risalire sopra questa soglia e riacquisire il diritto. Quanto alle decurtazioni dei crediti, queste scattano in caso di violazioni accertate: la riduzione può variare da 1 a 20 punti, a seconda della gravità dell’infrazione. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 22 marzo 2025
Bassa produttività, salari insufficienti e limiti della contrattazione collettiva restano problemi da risolvere Non c’è che dire: i dati sull’occupazione recentemente diffusi dall’Istat lasciano ben sperare, soprattutto per quanto riguarda la riduzione del precariato e la crescita del Mezzogiorno. Per quanto giustificata dalle statistiche, però, la soddisfazione manifestata dalla ministra Marina Calderone non deve distogliere l’attenzione da almeno tre problemi che restano irrisolti: bassa produttività, salari insufficienti e limiti della contrattazione collettiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo l’Istat, nel 2024 il numero degli occupati è aumentato di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego è calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione si è attestato al 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. La prima nota positiva risiede nel fatto che l’impennata degli occupati è legata soprattutto al lavoro a tempo indeterminato, visto che il numero dei dipendenti permanenti è salito di oltre mezzo milione di unità e cioè del 3,3%. Parallelamente, il totale dei dipendenti con contratto a termine è calato di 203mila unità, facendo segnare un crollo di quasi sette punti percentuali. La seconda nota positiva sta nella vitalità manifestata dal mercato occupazionale nel Centro e nel Sud del Paese. Da Roma in giù, infatti, il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,8%, quindi in maniera più sostenuta rispetto al Centro e al Nord dove si sono registrati rispettivamente un aumento dello 0,3% e un calo dello 0,4. Non solo: il calo del tasso di disoccupazione è stato più forte nel Mezzogiorno, dove ha sfiorato i tre punti percentuali a differenza di quanto accaduto nel Centro e al Nord, protagonisti di un calo rispettivamente dell’1,6 e dello 0,6%. Completano il quadro altre due incoraggianti statistiche. L’input delle imprese risulta in crescita, come dimostrano l’incremento del 2,3% delle posizioni dipendenti. E in salita del 3,4% è anche il costo del lavoro, a seguito dei miglioramenti stabiliti nei rinnovi contrattuali registrati nel corso del 2024. Tutte queste note positive, però, non devono far perdere di vista i nodi mai sciolti nel tessuto economico nazionale, a cominciare dai salari ancora troppo bassi. Anche su questo fronte abbiamo il conforto dei numeri: tra 2013 e 2023 gli stipendi sono cresciuti poco meno di 5 punti a fronte di un indice armonizzato dei prezzi salito di oltre 17, con la conseguenza che il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%. Qualcuno ha suggerito di risolvere questo problema introducendo il salario minimo legale, ma la strada maestra è e resta quella dell’incremento della produttività delle aziende. E qui veniamo alla seconda questione: le imprese italiane, in particolare quelle meridionali, sono troppo piccole per reggere il passo dei colossi internazionali e da decenni enormi difficoltà nel dotarsi di tecnologie e competenze oltre che ad accedere al credito bancario. E il contesto complessivo non le aiuta, se si pensa che la pubblica amministrazione italiana è notoriamente inefficiente e rallentata da mille pastoie burocratiche. Come se ne esce? Non solo favorendo le aggregazioni di imprese, facilitando il loro accesso al credito e garantendo servizi efficienti, ma anche rafforzando la contrattazione collettiva che resta il luogo in cui si compongono le ragioni della produttività con la tutela della persona che lavora. Anche qui, tuttavia, bisogna correggere una serie di storture: contrattazione al ribasso, contrattazione condotta da sigle poco rappresentative, 600 contratti applicabili a non più di 500 lavoratori e altri cento che attendono un rinnovo da oltre dieci anni. Ecco, su salari, produttività e contrattazione il lavoro da fare resta molto ed è bene che la politica ne sia consapevole: intervenire efficacemente su quei tre temi è indispensabile per migliorare le relazioni industriali, le performance delle imprese e soprattutto la vita dei lavoratori. Raffaele Tovino - Il Mondo del Lavoro
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