La pensione delle donne

Raffaele Tovino • 28 dicembre 2024
Secondo l'ultimo rapporto Inps, nel 2023, il divario di genere nei redditi pensionistici ha toccato il 23%. Come superarlo
Tutti discutono del divario di genere nell’accesso al lavoro e nel trattamento retributivo. Giusto, anzi giustissimo. Più volte, su queste stesse colonne, il sottoscritto ha evidenziato la necessità di superare quel gap non solo per ovvie ragioni di uguaglianza sociale, ma anche nella prospettiva di un aumento del prodotto interno lordo. Più lavoro femminile significa almeno dieci punti in più di prodotto interno lordo a livello nazionale, con benefici soprattutto al Sud.

Nessuno, però, si pone alcune domande altrettanto importanti: ammesso e non concesso che una donna riesca a trovare un impiego, a conciliare i tempi di vita privata e professione e a resistere nel mercato del lavoro, a quanto ammonterà la sua pensione? Il contributo sarà più alto o più basso di quello che spetta solitamente a un uomo? E quello stesso contributo, nel Mezzogiorno, sarà più alto o più basso di quello mediamente percepito da Roma in su?

Non si tratta di domande peregrine, soprattutto se si analizzano i dati più aggiornati. Ultimo rapporto Inps alla mano, nel 2023 il divario di genere nei redditi pensionistici ha toccato il 23%, se si analizza l’importo dei contributi liquidati, e addirittura il 30, se si guarda l’insieme dei trattamenti previdenziali. Ovviamente, a sfavore delle donne.
Insomma, le pensioni del gentil sesso sono più basse. Il divario di genere raggiunge il 18% per le anticipate e supera il 30 per quelle di vecchiaia. E questo per una lunga serie di motivi che riguardano il settore privato non agricolo. Le donne, infatti, scontano una sovra-rappresentazione in comparti dove si pagano salari mediamente più bassi, una scarsa presenza in posizioni di vertice, un minor numero di giorni lavorati e una più forte tendenza ad accettare impieghi part-time. Ecco perché i loro salari sono mediamente più bassi e così anche le pensioni.

Ma come si presenta questa situazione a livello regionale? Se si considerano le prestazioni previdenziali e assistenziali liquidate nel 2023, si nota come gli importi siano mediamente più bassi nel Mezzogiorno dove i lavoratori hanno carriere piuttosto discontinue con retribuzioni e anzianità contributive generalmente più contenute. I numeri ci confortano: a livello nazionale, le prestazioni previdenziali si aggirano sui 1.290 euro, mentre quelle assistenziali intorno ai 480. Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta sono le regioni in cui, nel 2023, le prestazioni previdenziali hanno toccato i livelli più alti, superando rispettivamente i 1.400 e i 1.100 euro; a seguire tutte le regioni del Nord a eccezione della Liguria. In coda i territori del Sud inclusa la Puglia, dove i trattamenti assistenziali superano di gran lunga quelli previdenziali fermandosi a quota 1.128: peggio fa solo la Calabria.

Se poi si analizza il divario di genere per regione negli importi liquidati nel 2023, si nota come le disparità più evidenti si registrino nelle regioni del Nord, dove le prestazioni mediamente più elevate: se la media nazionale è del 27%, il Veneto si colloca addirittura al di sopra col suo 32; al Sud, invece, i valori sono più contenuti, ma comunque toccano livelli allarmanti come nel caso di Puglia e Basilicata dove la differenza tra le pensioni degli uomini e quelle delle donne raggiungono rispettivamente il 23 e il 22%.

Che cosa vuol dire tutto questo? Come gli esperti Monica Paiella, Natalia Orrù e Diego Peroni hanno osservato in un loro recente e interessante lavoro, lo scenario appena descritto rende ancora più necessarie politiche capaci di ridurre il divario di genere nel mercato del lavoro, soprattutto nelle aree attualmente meno sviluppate e cioè nel Mezzogiorno. Non si tratta solo di diminuire i divari retributivi, ma anche di garantire maggiore continuità nei percorsi professionali, perché un sistema pensionistico basato sul metodo contributivo valorizza le carriere più lunghe e continuative.

Le riforme succedutesi nel corso degli anni hanno imposto un aumento dell’anzianità contributiva a tutti i lavoratori e soprattutto alle donne. Uscendo più tardi dal mercato del lavoro, le donne hanno ottenuto un vantaggio nel tasso di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica. Questo beneficio, però, non basta a compensare gli effetti di carriere lavorative più discontinue e di retribuzioni più basse: qualcuno, a Roma, si è mai posto il problema?

Raffaele Tovino
Autore: Raffaele Tovino 14 aprile 2025
Il vero esercito che serve oggi, ma a patto di migliorare anche la qualità dei controlli Che si tratti di quelle effettuate dall’Ispettorato nazionale del lavoro, dall’Inps o dall’Inail, le verifiche nelle aziende rivelano un esorbitante tasso di irregolarità. E ciò si verifica a fronte di un netto aumento degli accessi da parte delle autorità preposte, come evidenziato dalla relazione annuale dell’Inl sull’attività di vigilanza. Insomma, l’indicazione che si può trarre è intuitiva: più controlli si effettuano, più fenomeni illegali emergono. E altrettanto intuitivo è il corollario di quest’ultimo teorema: indispensabile è investire nell’assunzione di ispettori per stanare i furbetti che, con le loro pratiche scorrette, mettono a repentaglio la sicurezza di dipendenti e collaboratori e ne violano i diritti. Partiamo, come sempre, dai numeri. Nel 2024 le ispezioni dell’Inail sono rimaste in testa per tasso di irregolarità rispetto a quelle di Inps e Inl. Nel corso dell’anno, infatti, sono diminuite dell’1%, ma comunque situazioni di illegalità sono state riscontrate nel 93% dei casi. Performance migliore quella dell’Inps: gli accessi ispettivi sono calati di due punti percentuali, con un tasso di irregolarità che si è attestato all’82% delle ispezioni eseguite. È andata peggio all’Inl: qui il tasso di irregolarità è salito al 72%, in aumento del 2%, sul totale delle verifiche condotte nelle aziende. Complessivamente gli accessi ispettivi – cioè quelli effettuati da personale dell’Inl, compresi i carabinieri, dell’Inps e dell’Inail – hanno subìto un’impennata del 42% rispetto a quelli eseguiti nel 2023, superando quota 111mila in tutta Italia. E tutti i controlli sono aumentati rispetto al 2023: quelli dell’Inail sono cresciuti di 59 punti percentuali, quelli dell’Inps di cinque, mentre quelli dell’Inail sono calati di 12. E quante sono state le anomalie riscontrate? Sempre secondo il report dell’Inl sono stati accertati illeciti in 80.245 ispezioni, con un tasso di irregolarità pari al 74% che è sostanzialmente uguale a quello registrato a fine 2023. Ma c’è un dettaglio di non poco conto, cioè che il tasso d’irregolarità evidenziato dalle ispezioni condotte dall’Inl ha visto un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. Quanto all’oggetto delle anomali, due dati spiccano sugli altri. Alla fine dell’attività di vigilanza, infatti, sono stati accertati contributi previdenziali non versati per un importo superiore a 200 milioni di euro (nel 2023 non arrivavano a 147 milioni) e premi assicurativi non versati per circa 20 milioni, con edilizia, industria e terziario che restano i comparti col più alto ammontare di premi contestati dall’Inail (rispettivamente 11.9, 4.6 e 3.1 milioni). Questi numeri, dunque, valgono a ricordare come qualsiasi campagna per la tutela dei diritti dei lavoratori non possa prescindere dalla prevenzione e dal rafforzamento dell’attività ispettiva. Ecco perché è indispensabile, innanzitutto, incrementare il numero degli ispettori: ecco il vero esercito che serve oggi. In tal senso è emblematica la vicenda di Brandizzo, dove nel 2024 cinque operai furono travolti e uccisi da un treno mentre lavoravano sui binari: nel distretto di Piemonte e Valle d’Aosta le figure deputate ai controlli erano solo 95, di cui 45 con competenza specifica in materia di sicurezza, a fronte di una platea di circa 235mila imprese. Altrettanto necessario è migliorare l’efficacia delle ispezioni, indirizzandole verso le aziende dove è più facile riscontrare le irregolarità. In questa prospettiva può essere d’aiuto l’intelligenza artificiale, cioè i modelli predittivi che alcuni ricercatori universitari hanno messo a punto e che consentono di individuare in anticipo i contesti in cui probabilmente si verificheranno irregolarità in modo da concentrare proprio lì le ispezioni. Le strade da battere sono molteplici e vanno percorse fino in fondo, pur di garantire la tutela dei diritti dei lavoratori. Raffaele Tovino Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 7 aprile 2025
Su lavoro e diritti politica e sindacati non devono abdicare Spesso le inchieste giudiziarie rivelano spaccati inquietanti della società contemporanea. È il caso di quelle sul lavoro irregolare condotte dalla Procura di Milano negli ultimi tempi. Da queste indagini emerge un modello in cui gli operai appaiono come “mere appendici delle macchine”, con queste ultime che detengono “il controllo totale dell’organizzazione e dei ritmi lavorativi”. Scenari che, da una parte, evidenziano l’importanza dell’azione della magistratura e, dall’altra, la necessità che politica e sindacati si facciano seriamente carico della delle protezione dei diritti dei lavoratori. Le inchieste della Procura meneghina hanno consentito all’erario di recuperare 600 milioni di euro attraverso i risarcimenti fiscali. Ma il dato che più colpisce sono quelle 49mila persone che prima lavoravano nell’ambito di appalti irregolari e che, dopo l’intervento della magistratura, sono stati assunti e stabilizzati. Si tratta, per lo più, di operai impiegati in logistica, trasporti e vigilanza. Un’altra statistica riguarda i salari: in un caso, l’azione delle toghe ha portato a un aumento delle retribuzioni del 30% che non è affatto poco in un Paese che discute inutilmente di salario minimo legale e deve fronteggiare il dramma del lavoro povero. Le indagini hanno alzato il velo su un modello tripartito in cui i colossi di un settore e i committenti sono schermati da “società filtro” che acquisiscono il contratto di appalto e si avvalgono di “società serbatoio” che reclutano il personale indispensabile perché quegli stessi colossi possano operare sul mercato. Come ha sottolineato Simone Marcer su “Avvenire”, questo modello spiana la strada alla “transumanza dei lavoratori” da una società all’altra della filiera irregolare e quindi al loro sfruttamento. Non a caso, nel corso delle inchieste, molti operai hanno lamentato trasferimenti punitivi, ore di lavoro non conteggiate e ritmi massacranti. Le inchieste della magistratura, dunque, restituiscono una generale condizione di sofferenza, fatica, salari inadeguati, problemi di sicurezza, scarso investimento in formazione in almeno otto settori e cioè moda, logistica-trasporti, allestimenti fieristici, sicurezza, alimentari, grande distribuzione, costruzioni e pulizie. Qui lo sfruttamento del personale non costituisce l’eccezione ma la regola, proprio come avviene per l’agricoltura in Puglia e Basilicata. E rappresenta un fenomeno trasversale, visto che riguarda non soltanto le piccole e medie imprese ma anche i colossi, come dimostrano le borse di uno dei più noti marchi italiani che sarebbero state prodotte da operai extra-comunitari illegali al costo di soli 80 euro per poi essere rivendute a 1.800 circa. Ma c’è un elemento che preoccupa quanto il dilagare dello sfruttamento. E cioè la quasi completa latitanza di politica e sindacati. Il numero degli ispettori resta strutturalmente insufficiente, nonostante i recenti interventi del Governo. Ricordiamo la tragedia di Brandizzo, dove cinque operai furono travolti e uccisi sui binari: in quella zona, dove sono attive circa 235mila imprese, gli ispettori in servizio erano 95, di cui 45 deputati alla tutela della sicurezza nei cantieri, e le autorità potevano effettuare un controllo ogni sei mesi. A ciò si aggiunge il problema dei sindacati confederali che, in passato, hanno firmato contratti non soddisfacenti. Insomma, bene l’azione della magistratura, ma la tutela dei diritti dei lavoratori non può essere delegata alle toghe: politica e sindacati se ne rendano conto. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 31 marzo 2025
Com’è possibile, in un momento in cui occupazione e prodotto interno lordo sono in aumento, che quasi un italiano su quattro sia a rischio povertà? Molti si saranno posti questo interrogativo dopo la recente pubblicazione dei dati sulle condizioni di vita e di reddito nel nostro Paese da parte dell’Istat. E a quelle stesse persone non sarà sfuggita l’evidente discrepanza tra queste statistiche, poco lusinghiere se non addirittura allarmanti, e quelle sul mercato del lavoro, che invece tanto fanno inorgoglire il governo Meloni. Questa divergenza non è il risultato di un atteggiamento schizofrenico dell’Istat, ma di un dramma che da anni affligge l’Italia e, in particolare, il Sud: quello del lavoro povero. E allora ragioniamo sui numeri. Pochi giorni fa l’Istat ha detto che il 23% degli italiani è a rischio povertà, che i genitori hanno il 9% in meno di possibilità di spendere rispetto a 18 anni fa e che un lavoratore ogni dieci è povero anche se ha un’occupazione. In precedenza, sempre l’Istat aveva osservato come nel 2024 il numero degli occupati sia cresciuto di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego sia calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. Si tratta di dati incompatibili tra loro? Niente affatto. Queste statistiche si giustificano e ci inducono a riflettere sulla qualità del lavoro in Italia. Non c’è dubbio, infatti, che nel nostro Paese il lavoro si sia progressivamente impoverito per quanto riguarda sia la remunerazione sia la qualità. Anche qui ci soccorrono i numeri: secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, la crescita dei salari reali avvenuta in Italia nel 2024 non è stata sufficiente a compensare le perdite registrate nel biennio precedente, quando l’inflazione ha registrato livelli mai visti negli ultimi 40 anni. Più precisamente, l’aumento delle retribuzioni nella misura del 2,3% non è riuscito a recuperare quanto è stato perso in potere di acquisto nel 2022 (-3,3%) e nel 2023 (-3,2%). Si tratta del risultato peggiore tra i Paesi del G20, che riflette un trend ormai consolidato. Raffaele Tovino - L'Edicola
Autore: Raffaele Tovino 29 marzo 2025
Nel 2024, a fronte di buoni dati economici, è aumentata la pressione fiscale Sì, non c’è dubbio, nel 2024 l’economia italiana è migliorata e a certificarlo ci pensano i dati recentemente diffusi dall’Istat. Crescita reale, deficit, saldo primario, entrate, pil: tutti valori più o meno positivi. Non si può ignorare, però, l’aumento della pressione fiscale. E a non poterlo ignorare sono soprattutto i lavoratori dipendenti, cioè quelli più martoriati da un fisco che ogni giorno rivela le sue incongruenze e illogicità. Partiamo, come sempre, dai numeri. Dati Istat alla mano, nel 2024 l’economia nazionale è cresciuta in termini reali dello 0,7%. Pochino, non c’è che dire, ma ad alimentare l’entusiasmo ci pensano statistiche ben più pesanti. È il caso del deficit, ridottosi dal 7,2 addirittura al 3,4% e dunque quasi in linea con le regole europee; del saldo primario, positivo seppure soltanto dello 0,4%; delle entrate nominali, cresciute del 5,7%; del pil nominale, in salita di poco meno di tre punti. Su queste discrete o buone od ottime performance ha inciso sicuramente il taglio delle spese sostenute dalla pubblica amministrazione per circa 41 miliardi, legato soprattutto al fortissimo ridimensionamento del Superbonus. L’unico incremento che non fa piacere è quello della pressione fiscale, passata in un anno dal 41,4 al 42,6%. In valore assoluto, ciò significa che lo Stato ha incassato, in soli 12 mesi, 26 miliardi in più rispetto al 2023. Secondo la premier Giorgia Meloni, questo aumento è legato al buon andamento dell’occupazione. E, in effetti, i lavoratori dipendenti risultano cresciuti di 2,3 punti e i loro redditi di 5,2. E, come è facile intuire, più “stipendiati” equivalgono a più imposte e più contributi pagati da vecchi e nuovi lavoratori, anche a parità di aliquote rispetto al passato. Come hanno magistralmente osservato due economisti del calibro di Leonzio Rizzo e Massimo Bordignon, le ragioni dell’aumento della pressione fiscale sono molto meno piacevoli. E questo per due ordini di motivi. Il primo: i redditi da lavoro dipendente sono tassati molto più degli altri. Il 49% delle entrate fiscali, infatti, è legato ai salari, il 17 ai profitti e il 33 alle imposte indirette. Eppure i salari costituiscono solo il 38% del pil, mentre i profitti il 50 e le imposte indirette il 12. Quindi, se i salari crescono, aumenta anche il pil e le entrate subiscono un’impennata che fa poi registrare una maggiore pressione fiscale. In più, c’è da dire che i redditi da lavoro sono tassati due volte perché soggetti a contributi, che sono un’imposta proporzionale, e a Irpef, che è un’imposta progressiva. E proprio la progressività impone che i redditi, a mano a mano che crescono, siano sottoposti a un’aliquota via via più alta. Ciò, tuttavia, riguarda solo i redditi da lavoro dipendente che rappresentano l’85% dell’Irpef. Proprio per alleggerire il carico fiscale sui lavoratori dipendenti, la legge di bilancio per il 2025 ha reso strutturale il taglio del cuneo fiscale che prevede una riduzione dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti, sia nel settore pubblico che privato. In più, sono stati rivisti gli scaglioni e le aliquote dell’Irpef. Si tratta di interventi opportuni, ma probabilmente ancora insufficienti. Anche perché, oltre che con i danni “strutturali”, i lavoratori dipendenti hanno dovuto fare i conti con la beffa dell’inflazione: tra 2022 e 2023 la quota dei profitti sul pil è cresciuta perché le imprese sono riuscite a scaricare in avanti i maggiori costi praticando prezzi più elevati, mentre i lavoratori dipendenti sono rimasti vincolati ai contratti firmati in precedenza e quindi hanno subito una decurtazione del loro potere d’acquisto soprattutto nel Mezzogiorno, dove il livello medio degli stipendi è notoriamente più basso. Ciononostante il fisco ha continuato a tassare i redditi da lavoro dipendente alle usuali aliquote. Ora è tempo di correggere anche quelle storture. Raffael Tovino - Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 27 marzo 2025
A gennaio erano oltre 430 mila le imprese edili col certificato, ma sono stati fatti solo 8 mila controlli L’ultimo bollettino parla di tre morti sul lavoro nel giro di poche ore. Il più giovane, Daniel Tafa, di Pordenone, aveva solo 22 anni e stava lavorando su una macchina per stampaggio di ingranaggi industriali quando una scheggia incandescente lo ha trafitto alla schiena uccidendolo all’istante. Nicola Sicignano, invece, di anni ne aveva 51 ed è rimasto vittima del lavoro un un’azienda di trattamento dei rifiuti a Sant’Antonio Abate, in provincia di Napoli: il braccio e la testa sono rimasti incastrati nel nastro trasportatore. Il 38enne originario di Bari Umberto Rosito, infine, è stato investito da un mezzo pesante mentre lavorava alla carreggiata nord dell’Autosole, vicino a Orvieto. Queste ultime tre vittime sono in linea con le statistiche Inail che parlano di circa 1000 morti l’anno. Ma, a fronte di tutto questo, nemmeno la soluzione della patente a punti per le aziende sembra aver migliorato la situazione. A quasi cinque mesi di distanza dalla sua entrata in vigore, infatti, se sulla carta poteva coprire una platea di 830 mila aziende, se ne sono dotate realmente sono e poco più di 432 mila sono state controllate. La ministra Calderone ha spiegato che l’Ispettorato del Lavoro ha fatto 8 mila controlli senza rilevare grosse criticità. Il che significa che ci sono poche infrazioni ma anche pochi controlli, fermi al 12% circa. Quanto alle pagelle, ai famigerati crediti da togliere (per ora il meccanismo vale solo per le aziende edili), il Ministero non ha dato ancora alcun dato. Il meccanismo della patente a punti prevede che ad ogni impresa vengano assegnati 30 crediti che, attraverso vari step, possono poi salire sino a quota 100. Ma se si scende sotto i 15 punti non si può più operare nei cantieri. Tuttavia, basta seguire un corso di formazione per risalire sopra questa soglia e riacquisire il diritto. Quanto alle decurtazioni dei crediti, queste scattano in caso di violazioni accertate: la riduzione può variare da 1 a 20 punti, a seconda della gravità dell’infrazione. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 22 marzo 2025
Bassa produttività, salari insufficienti e limiti della contrattazione collettiva restano problemi da risolvere Non c’è che dire: i dati sull’occupazione recentemente diffusi dall’Istat lasciano ben sperare, soprattutto per quanto riguarda la riduzione del precariato e la crescita del Mezzogiorno. Per quanto giustificata dalle statistiche, però, la soddisfazione manifestata dalla ministra Marina Calderone non deve distogliere l’attenzione da almeno tre problemi che restano irrisolti: bassa produttività, salari insufficienti e limiti della contrattazione collettiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo l’Istat, nel 2024 il numero degli occupati è aumentato di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego è calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione si è attestato al 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. La prima nota positiva risiede nel fatto che l’impennata degli occupati è legata soprattutto al lavoro a tempo indeterminato, visto che il numero dei dipendenti permanenti è salito di oltre mezzo milione di unità e cioè del 3,3%. Parallelamente, il totale dei dipendenti con contratto a termine è calato di 203mila unità, facendo segnare un crollo di quasi sette punti percentuali. La seconda nota positiva sta nella vitalità manifestata dal mercato occupazionale nel Centro e nel Sud del Paese. Da Roma in giù, infatti, il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,8%, quindi in maniera più sostenuta rispetto al Centro e al Nord dove si sono registrati rispettivamente un aumento dello 0,3% e un calo dello 0,4. Non solo: il calo del tasso di disoccupazione è stato più forte nel Mezzogiorno, dove ha sfiorato i tre punti percentuali a differenza di quanto accaduto nel Centro e al Nord, protagonisti di un calo rispettivamente dell’1,6 e dello 0,6%. Completano il quadro altre due incoraggianti statistiche. L’input delle imprese risulta in crescita, come dimostrano l’incremento del 2,3% delle posizioni dipendenti. E in salita del 3,4% è anche il costo del lavoro, a seguito dei miglioramenti stabiliti nei rinnovi contrattuali registrati nel corso del 2024. Tutte queste note positive, però, non devono far perdere di vista i nodi mai sciolti nel tessuto economico nazionale, a cominciare dai salari ancora troppo bassi. Anche su questo fronte abbiamo il conforto dei numeri: tra 2013 e 2023 gli stipendi sono cresciuti poco meno di 5 punti a fronte di un indice armonizzato dei prezzi salito di oltre 17, con la conseguenza che il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%. Qualcuno ha suggerito di risolvere questo problema introducendo il salario minimo legale, ma la strada maestra è e resta quella dell’incremento della produttività delle aziende. E qui veniamo alla seconda questione: le imprese italiane, in particolare quelle meridionali, sono troppo piccole per reggere il passo dei colossi internazionali e da decenni enormi difficoltà nel dotarsi di tecnologie e competenze oltre che ad accedere al credito bancario. E il contesto complessivo non le aiuta, se si pensa che la pubblica amministrazione italiana è notoriamente inefficiente e rallentata da mille pastoie burocratiche. Come se ne esce? Non solo favorendo le aggregazioni di imprese, facilitando il loro accesso al credito e garantendo servizi efficienti, ma anche rafforzando la contrattazione collettiva che resta il luogo in cui si compongono le ragioni della produttività con la tutela della persona che lavora. Anche qui, tuttavia, bisogna correggere una serie di storture: contrattazione al ribasso, contrattazione condotta da sigle poco rappresentative, 600 contratti applicabili a non più di 500 lavoratori e altri cento che attendono un rinnovo da oltre dieci anni. Ecco, su salari, produttività e contrattazione il lavoro da fare resta molto ed è bene che la politica ne sia consapevole: intervenire efficacemente su quei tre temi è indispensabile per migliorare le relazioni industriali, le performance delle imprese e soprattutto la vita dei lavoratori. Raffaele Tovino - Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 15 marzo 2025
Si tratta di un messaggio chiaro alla società: significa dire ai giovani che la loro vita vale più di una distrazione, di un’imprudenza o di una negligenza “Ogni giorno in Italia tre persone non tornano a casa dal lavoro”. Questa frase, pronunciata spesso nei telegiornali e letta nei titoli di giornale, è un dato che fa male. Dietro quei numeri ci sono volti, famiglie distrutte, storie di persone che hanno perso la vita mentre facevano semplicemente il loro mestiere. Ma forse, qualcosa sta cambiando. Con la Legge 17 febbraio 2025, n. 21, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, la scuola diventa un luogo in cui la sicurezza sul lavoro non è solo una regola scritta su un manuale, ma un valore da imparare fin da giovani. Un’educazione che potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte quando, un domani, questi ragazzi entreranno in fabbriche, uffici, cantieri o ospedali. Non solo teoria: prevenzione che salva vite Fino ad oggi, la sicurezza sul lavoro era un tema che si affrontava solo nei corsi obbligatori una volta già assunti. Troppo tardi, forse. Ora, invece, diventerà parte dell’educazione civica, una materia già presente nei programmi scolastici e che ora si arricchisce di un nuovo e fondamentale tassello: insegnare ai ragazzi a proteggersi nel mondo del lavoro. Ma come si farà? Non solo con lezioni frontali, ma con incontri con esperti, video, simulazioni e testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle cosa significa subire un infortunio. L’idea è chiara: far capire che la sicurezza non è un optional, ma un diritto che deve essere garantito sempre, a chiunque e ovunque. “Lavorare non deve significare rischiare la vita” Negli ultimi anni, i numeri degli infortuni sono rimasti allarmanti. Più di 1.000 persone hanno perso la vita sul posto di lavoro nel 2024. Una cifra che pesa come un macigno e che dimostra quanto sia necessario partire dall’educazione per cambiare la mentalità. Non si tratta solo di far conoscere le norme, ma di trasmettere ai ragazzi un concetto più profondo: un lavoro sicuro è un lavoro giusto. E pretendere sicurezza sul lavoro non è una richiesta esagerata, ma un diritto inalienabile. Un investimento sul futuro Pensiamo a un ragazzo di oggi che tra pochi anni si troverà su un’impalcatura, davanti a un macchinario o in un laboratorio. Se avrà ricevuto una formazione adeguata sulla sicurezza, saprà riconoscere i rischi, pretendere dispositivi di protezione, segnalare situazioni pericolose. E, magari, proprio grazie a questa consapevolezza, eviterà un incidente che avrebbe potuto segnare per sempre la sua vita. L’inserimento della sicurezza sul lavoro nei programmi scolastici non è solo una modifica legislativa: è un messaggio chiaro alla società. Significa dire ai giovani che la loro vita vale più di una distrazione, di un’imprudenza o di una negligenza. Forse questa legge non cambierà tutto da un giorno all’altro. Ma è un primo passo. E ogni grande cambiamento inizia sempre così. Raffaele Tovino Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 10 marzo 2025
La Compagnia di San Paolo in campo per aiutare le donne tra lavoro e famiglia Ci sono dati sui quali bisognerebbe riflettere, soprattutto in occasione della cosiddetta festa della donna. Due su tutti: secondo l’Istat, una donna su cinque abbandona il mondo del lavoro dopo la nascita del primo figlio; di conseguenza, l’Italia deve fare i conti con un tasso di occupazione femminile che non va oltre il 65,5%, a fronte di una media europea che supera il 70. Oltre che sui problemi, però, bisognerebbe ragionare sulle soluzioni e, dunque, sulla necessità di adottare politiche attive del lavoro più inclusive, che vadano oltre le misure tradizionali e tengano conto delle specifiche barriere che le madri affrontano nel rientro nel mondo dell’occupazione. Un esempio? Il programma Equilibri che la Compagnia di San Paolo ha avviato in tre aree del Piemonte e che, almeno a giudicare dai primi riscontri, meriterebbe di essere replicato in altre regioni, a cominciare da quelle meridionali. Ma di che cosa si tratta, in concreto? Il programma punta ad aiutare le madri di ragazzi con meno di 18 anni a trovare un’occupazione, a migliorare la situazione lavorativa e a raggiungere un equilibrio tra esigenze professionali e familiari, senza tralasciare l’ulteriore obiettivo di sostenere lo sviluppo cognitivo dei figli. Ciò avviene secondo una precisa metodologia: all’iscrizione al programma segue l’incontro con un case-manager nel corso del quale la donna illustra le proprie condizioni familiari e di lavoro ed entrambi individuano la strategia più efficace per far sì che la stessa donna rientri nel mercato del lavoro o possa aumentare le ore di lavoro ridotte all’indomani del parto. In questa prospettiva la partecipante al programma viene registrata presso gli uffici di collocamento, segue corsi professionali, viene inserita in centri di sostegno psicologico, impara a redigere il curriculum vitae e si confronta con altre mamme sui problemi riguardanti famiglia, lavoro e figli. E, proprio a proposito di figli, Equilibri prevede anche campi estivi o attività artistiche e sportive per i ragazzi. Come hanno opportunamente evidenziato gli esperti Daniela Del Boca, Luca Favero e Chiara Pronzato, il programma ha prodotto risultati positivi: in generale, le donne lavorano per più ore, sono più soddisfatte dell’equilibrio lavoro-famiglia e manifestano una maggiore aspirazione a mettere al mondo un altro figlio. L’effetto è maggiore per le donne più giovani e per quelle donne che lavoravano già al tempo dell’iscrizione al programma. La probabilità di lavorare aumenta più nettamente per chi era disoccupata al momento dell’iscrizione, così come la probabilità di ritenere più sostenibili gli impegni familiari e lavorativi. Tra le donne meno istruite, si registra un impatto positivo sulla soddisfazione lavorativa. Per le donne che erano occupate o con un’istruzione terziaria, il cambiamento più evidente riguarda l’aumento di 2,5-3 ore lavorate a settimana. E i risultati sono positivi anche in relazione ai figli da uno a sei anni, se si pensa che essi manifestano una maggiore partecipazione alle attività extrascolastiche e minori problemi nel rapporto con gli altri. Che cosa ci suggerisce tutto ciò? Che le politiche attive del lavoro dovrebbero essere al centro delle politiche di welfare e caratterizzarsi per una sempre maggiore integrazione tra servizi per l’impiego, formazione professionale e sostegno alla genitorialità, il tutto con una particolare attenzione alle donne più vulnerabili, a quelle con livelli di istruzione più bassi e a quelle che hanno interrotto l’attività lavorativa per lunghi periodi. Esperienze come Equilibri dimostrano come e quanto i nuovi modelli di politiche attive del lavoro possano garantire benefici alle donne e ai loro figli, ferma restando la necessità di costruire gli asili nido previsti dal Pnrr e di estendere l’applicazione del congedo parentale: solo così si restituirà dignità alle donne, favorendone l’inserimento nel mercato del lavoro, e si innescherà quella crescita forte e duratura del tasso di occupazione femminile, indispensabile per mettere il turbo all’economia italiana e meridionale. Raffaele Tovino Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 8 marzo 2025
Dopo 77 anni si dà seguito a un dettato costituzionale, ma con una norma che rischia di farci solo continuare a galleggiare Adistanza di 77 anni dalla stesura della Costituzione, che all’articolo 46 riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, la Camera dà il primo via libera al disegno di legge popolare. La Cisl, che di questa iniziativa legislativa è promotrice, parla di «passo fondamentale verso un traguardo storico per il mondo del lavoro e l’intero Paese». L’entusiasmo della neo-segretaria Daniela Fumarola e del suo predecessore Luigi Sbarra è comprensibile. Resta da vedere quanto sia giustificato, visto che quello che ha ricevuto il primo ok dal Parlamento è un testo “annacquato” nella speranza di non scontentare opinione pubblica, politica e mondo sindacale. Partiamo dallo scenario complessivo. La partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa è un’idea affascinante e contemplata in un ampio ventaglio di accordi collettivi. Si pensi a Luxottica, che ha creato un comitato destinatario di informazioni sui problemi relativi all’integrazione con Exilor, un altro comitato per la distribuzione delle azioni ai dipendenti e altre forme di partecipazione con competenze in materia di ciclo produttivo, orari e organizzazione del lavoro. Ancora, nel contratto collettivo Fca-Cnhi-Ferrari si parla di un sistema di relazioni incentrato su commissioni paritetiche per risoluzione delle controversie legate ai contratti, sviluppo del welfare aziendale, pari opportunità e verifica dell’assenteismo. In più, sui 3mila contratti monitorati dall’osservatorio della Cisl il 59% prevede la partecipazione consultiva attraverso commissioni paritetiche in cui sono rappresentate le organizzazioni sindacali, il 40 la partecipazione organizzativa attraverso commissioni per migliorare processi e prodotti, il 19 la partecipazione economico-finanziaria con la distribuzione di azioni e utili ai lavoratori, il 5 la partecipazione gestionale mediante i rappresentanti del personale all’interno dei cda. È in questo contesto che si inserisce la proposta della Cisl che prevede il possibile (non obbligatorio) ingresso dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza o di amministrazione, la distribuzione degli utili ai dipendenti, i piani di azionariato per la distribuzione delle azioni al personale, commissioni paritetiche per la condivisione di piani di miglioramento e innovazione di prodotti, processi produttivi, servizi e organizzazione del lavoro, senza dimenticare la formazione continua per chi fa parte degli organismi partecipativi. La sensazione è che nel testo manchino misure vincolanti per dare attuazione a un modello mai concretamente realizzato, sebbene potenzialmente utile e previsto dalla Costituzione. Il ruolo della contrattazione appare depotenziato, col risultato che la partecipazione dei lavoratori diviene una scelta unilaterale delle imprese. In secondo luogo, per garantire il principio di rappresentanza occorre che i lavoratori non siano scelti dal datore di lavoro o dai soci, ma attraverso il canale sindacale e dunque sulla base di un accordo o tramite elezioni. Ancora, ai rappresentanti dei lavoratori andrebbe riconosciuto un potere reale, cioè la possibilità di incidere effettivamente sulle decisioni dell’azienda, magari anche chiedendo la sospensione di decisioni potenzialmente lesive dei diritti del personale e l’apertura di un confronto con le organizzazioni sindacali. Infine, la partecipazione dei lavoratori dovrebbe essere obbligatoria anche nei cda delle società pubbliche. Simili norme sarebbero capaci di indurre quella trasformazione culturale che finora è mancata ma che sarebbe necessaria per garantire ai lavoratori una partecipazione effettiva alla vita delle aziende. Altrimenti anche su questa vicenda si continuerà a “galleggiare” nel limbo delle buone intenzioni. Raffele Tovino Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 3 marzo 2025
Perché è giusto che il legislatore intervenga per disciplinare questa materia a livello europeo e nazionale Che la si intenda come opportunità o pericolo, alla luce delle nuove prospettive che è in grado di offrire o del suo inevitabile impatto sull’occupazione, l’intelligenza artificiale rappresenta una delle più grandi sfide che le imprese italiane e del resto del mondo sono chiamate ad affrontare. Ma qual è l’approccio che bisogna adottare? Negli Stati Uniti e in Cina, l’intelligenza artificiale avanza sotto l’egida della tecnologia e del mercato, mentre nell’Unione europea è tutto un florilegio di normative che puntano a tutelare i diritti umani e i posti di lavoro. Nel Vecchio Continente un percorso accidentato e a tratti contraddittorio, avviato nell’ormai lontano 2019, ha portato all’emanazione di due direttive e di un regolamento: la prima riguarda la trasparenza con particolare riferimento alle condizioni di lavoro, la seconda il lavoro tramite piattaforma digitale e infine c’è il cosiddetto Ai Act. Questa disciplina di livello europeo si somma alle norme nazionali di recepimento, senza dimenticare lo Statuto dei lavoratori e la normativa sulla privacy. Insomma, la disciplina in materia di intelligenza artificiale è ormai consistente e articolata e muove in due direzioni: da una parte, gestire l’accresciuta capacità di fare calcoli, stime valutative, profilazioni personali e ipotesi predittive che la tecnologia porta con sé e che possono essere sfruttate a scopi produttivi; dall’altra, gestire l’impatto sull’occupazione proteggendo i lavoratori e scongiurando una “ecatombe occupazionale”. Ecco, proprio in merito a quest’ultimo punto è lecito – se non addirittura doveroso – chiedersi quale strategia debba essere opportunamente adottata. Partiamo da un duplice presupposto: lo sviluppo e la diffusione dell’intelligenza artificiale recano con sé una sostanziale incertezza, visto che di questa forma di transizione digitale non si conosce la durata né l’esito, e un inevitabile cambiamento dell’organizzazione del lavoro, visto che quella stessa transizione digitale le mansioni per attività di data entry, call center, reportistica, trasporti e logistica, servizi finanziari e assicurativi e ruoli amministrativi. Che cosa fare, dunque, nell’immediato? Ciò che appare indispensabile, come anche Francesco Bocconi ha spiegato sulle colonne del Sole 24 Ore, è potenziare gli strumenti di acquisizione e riqualificazione soprattutto per due fasce di lavoratori, cioè i giovani e gli anziani, che potrebbero risentire maggiormente della diffusione dell’intelligenza artificiale nel mercato del lavoro. In concreto, ciò vuol dire sfruttare e valorizzare le potenzialità di alcune forme contrattuali. Il primo esempio è quello dell’apprendistato, di fatto mai “decollato” dopo la riforma approvata nell’ormai lontano 2003. Altrettanto necessario è investire in un fondo competenze che sostenga l’upskilling per i giovani e il reskilling per i lavoratori più in là con gli anni. Completano il quadro i contratti flessibili, il lavoro su piattaforma digitale e gli appalti tecnologici che, in una fase come questa, possono risultare molto utili per far sì che l’occupazione possa adattarsi più facilmente ai cambiamenti in atto e alle caratteristiche delle nuove figure professionali. In altre parole, è giusto che il legislatore intervenga in materia di intelligenza artificiale a livello europeo e nazionale, con proprie normative, soprattutto nell’ottica di proteggere i livelli occupazionali in zone tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno d’Italia. Ma è altrettanto importante che vengano sfruttati gli strumenti che il diritto del lavoro già offre per favorire l’acquisizione delle necessarie competenze da parte dei lavoratori evitando che questi ultimi vengano sorpresi e travolti dalla transizione tecnologica in atto: investire sulle competenze è la strategia più saggia per fare in modo che l’intelligenza artificiale si riveli un’opportunità più che una “ghigliottina”. Raffaele Tovino Il Mondo del Lavoro
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